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di Franco Simoni
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Nel 1958 si celebrò il battesimo del cane da pastore maremmano abruzzese. Gli fu dato il nome che attualmente porta perché l’ Enci, avvalendosi della collaborazione del valente Prof. Solaro, del C.T. del C.P.MA. e del sottoscritto, lo deliberò dopo aver indicato i caratteri etnici della razza e compilato lo standard.
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Da quel momento per questa nostra importante razza canina italiana si aprì un nuovo capitolo della sua lunghissima storia. Fu giusto ed opportuno unificare le due razze esistenti: “ la maremmana” e “l’abruzzese”, in quanto razze non erano, ma se mai varietà, in quanto tra le stesse non esistevano differenze, né a livello morfologico, né a livello fisiologico, che avessero carattere di genotipicità. Parve piuttosto il risultato di un compromesso e chi, come il sottoscritto, seguiva la storia e le vicende della razza, lo percepì, lo ricorda; si rammarica.
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Il deliberato dell’Enci voleva acquietare gli animi, sedare le accese passioni che animavano coloro che sostenevano, a spada tratta, e senza ragione, ed affermavano: il cane è maremmano; no, il cane è abruzzese, e discutevano all’infinito, senza trovarsi d’accordo, solo perché erano animati da esasperato spirito campanilistico, senza chiarezza di idee, privi di conoscenze tecniche e storiche, ed anche di buonsenso. Né derivò poi una specie di armistizio, interrotto ogni tanto da qualche sporadico scontro verbale e battibecco, che confermava che la decisione e la scelta della denominazione non era stata definitivamente accettata, ed aveva lasciato insoddisfatti molti. In questa atmosfera furono trascorsi, quasi trenta anni. La razza ebbe ed ha avuto un suo grande ritorno, generato molte simpatie, creato interessi diversi ma, risentimenti e mugugni saltarono nuovamente fuori a provocare nuove rivendicazioni e pretese. Il suo nome fu di nuovo rimesso in discussione. Nel 1988 infatti, una iniziativa della Regione Abruzzo ha sorpreso tutti. Promossa da alcuni amatori e conoscitori del cane bianco da pastore, almeno così qualificatosi, con l’appoggio di alcuni politici locali, evidentemente più interessati a farsi una clientela elettorale che ai destini del cane, ha riportato la palla nel campo da giuoco, riproponendo il problema all’Enci, per chiedere addirittura il riconoscimento di una loro razza locale, cui vorrebbe dare il nome di “mastino abruzzese“.
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La delibera dell’Enci del 1958, relativa alla denominazione, era scaturita dal fatto che l’Abruzzo e le Maremme, intese come “maritimae”, cioè terre affanciantesi sul mare, erano i due territori in cui la popolazione canina in oggetto, era, a quel momento, più rappresentata, presente ed attiva nelle numerose iniziative pastorali che nelle zone sopradette, costituivano la base principale della economia. L’Enci aveva però, imperdonabilmente, dimenticato che l’Abruzzo e le Maremme rappresentano i cardini di un sistema secolare, cioè della transumanza, che le legava, ma il cane non era presente soltanto in Abruzzo, ma in tutta la dorsale appenninica, sulla quale, non vada dimenticato, si era originata per prima, l’attività pastorale.
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Aveva dimenticato cioè che l’Appennino aveva dato i natali e vita ai pastori ed al loro bestiame: ovini in prevalenza, che durante i lunghi periodi invernali, per la neve abbondantemente caduta a ricoprire i pascoli, li costringeva a scendere al piano, per assoluta necessità di sopravvivenza. Se l’Enci, nel 1958, avesse seguito un criterio zootecnico, ed avesse tenuto conto di principi tecnici, quali quelli delle filogenesi delle razze, e della tassonomia, così come era stato fatto per tutte le nostre razze di tipo agricolo, avrebbe dato alla nostra razza una denominazione più consona e più propria, quella cioè che razionalmente le spettava: “razza da pastore dell’Appennino”, perché questa, ripeto, è la parte dell’Italia in cui il cane bianco appare e qui trascorre la gran parte dell’anno, da maggio a novembre, insieme ai pastori, che qui hanno la loro dimora, la loro residenza, che quì lasciano la loro famiglia, anche quando transumano. Una soluzione di questo tipo non avrebbe avuto l’aspetto di un compromesso, ma sarebbe apparsa come una soluzione che, seppure coraggiosa e radicale, era la più razionale e tale da togliere ogni motivo di contesa, lasciando tutti soddisfatti e tranquilli. Avrebbe trovato la sua giustificazione in tutta la storia della ovinicoltura italiana e della pastorizia, in quella storia in cui i cani da pastore sono protagonisti di complesse vicende che si svolgono in uno scenario molto ampio e articolato, con il pastore e la pecora, con i quali i cani convivono in uno stretto legame di interdipendenza, e svolgono ciascuno il proprio ruolo secondo le proprie capacità e competenze.
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La storia del cane da pastore maremmano abruzzese è oramai conosciuta da tutti, in ogni occasione ripetuta, chiede venia il sottoscritto, se la deve ricordare: in tempi molto remoti, una imponente migrazione di popoli nomadi dediti alla agricoltura ed alla pastorizia, si mosse dal centro del continente asiatico, attraversò l’Europa, raggiunse anche l’Italia, attraversò le Alpi e dilagò nella vasta pianura padana, allora ubertosa per produzioni vegetali abbondanti e corsi d’acqua fluenti e per un clima particolarmente mite, rimanendovi a lungo.
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Quindi, nella necessità di altri spazi si diresse verso il Sud ed incontrò l’Appennino, che popolazioni italiche, avendo trovato migliori condizioni di vita altrove, avevano lasciato sgombro e disponibile. Sostarono nei tratti montuosi più accessibili e più adatti alla loro vita ed a quella dei loro animali, poi, successivamente, occuparono altri tratti, meno accessibili, più aspri e meno ospitali; meno accessibili, più erti, ma comunque a loro indispensabili per il sostentamento delle greggi e delle mandrie, che nel frattempo erano cresciute di numero. Il tratto appenninico abruzzese fu interessato da questo fenomeno migratorio molto più tardi, perché situato più a Sud, ma anche perché il meno ospitale per sua natura e per l’indole della sua gente. Esso infatti è caratterizzato da grandi massicci calcarei come quello dei Monti Sibillini, Reatini, Sabini, Simbruini, Ernici, del Gran Sasso, del Velino, della Maiella, della Meta, e del Matese, in cui ogni problematica è più rude e sovente, per molti periodi dell’anno, impossibile, per le abbondanti nevicate. Rispetto agli altri tratti aveva il vantaggio di essere relativamente vicino a pianure, quali quelle Maremmane, della Laziale e della Pugliese, cui però fu possibile accedere soltanto dopo l’apertura di passaggi e di valichi e la realizzazione di prolungamenti di tratturi esistenti, a seguito di immani fatiche umane. Li ripete anche Orazio scrivendo “nam qualis aut Molossus, aut fulvus Lacones, amica vis pastoribus”. Ripete che i cani della Laconia sono fulvi, ed, oggi, è assolutamente inaccettabile che si dica, per stabilire una relazione, che anche nel cane da pastore maremmano abruzzese talvolta appare il fulvo, considerato fase geneticamente antecedente al bianco. Ciò avvenne in maniera significativa, così la storia lo ricorda, soltanto nel Sec. XV in cui l’Abruzzo interruppe il suo millenario isolamento e stabilì contatti con Roma e la sua campagna, con il reatino, l’Umbria e le Marche e a sud con le Puglie, in cui i greggi, in estate potettero affluire in massa, in virtù dell’Editto di Alfonso I º D’Aragona, divenuto operante nell’anno di grazia 1447. Ripeto, l’Abruzzo fino a quella data era rimasto pressoché totalmente staccato dal resto del paese e costretto, per la sua configurazione orografica, ad un assoluto e forzato isolamento. Risentì tardi del moto umanistico rinascimentale, restando altresì anche al riparo dell’urto immediato di tanti avvenimenti storici e più significativi che, nel frattempo avevano coinvolto ed interessato gli altri popoli confinanti.
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Anche Roma, che aveva allargato smisuratamente il suo impero, anche oltre i confini peninsulari, non era riuscita a rompere questo millenario isolamento, né era riuscita ad imporre il suo dominio su popolazione bellicose ed irriducibili, chiuse e protette dai loro invalicabili confini naturali, in un territorio che, tra l’altro, non offriva molto da essere tanto desiderato, e da motivare una guerra di conquista. L’Abruzzo, allora, aveva anche problemi di amalgama fra i vari popoli che lo abitavano.
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Equi, Marsi, Peligni, Vestini e Marrucini, in eterna contesa fra di loro, formanti una comunità dal destino triste e singolare, per una tenace e caparbia fedeltà alle loro forme agricole, economiche, sociali, costantemente e fatalmente condizionate dal più primitivo e più stabile degli elementi: la Natura. Mentre questo favorì il nascere di tanti asceti e di tanti santi, l’isolamento, la solitudine e la scarsa produttività unitaria del suolo coltivabile, i lunghi inverni sotto la neve, che inesorabilmente determinarono nella popolazione uno stato di semiletargo in questa stagione, non ha permesso la realizzazione di grandi opere e lo sviluppo di grandi creature e neanche, sebbene le popolazioni fossero da sempre dedite alle coltivazioni dei campi ed all’allevamento del bestiame, la formazione di specie e di razze di vero interesse zootecnico. L’Abruzzo, perciò, non può vantare, a differenza di altre regioni italiane la paternità di una razza bovina, di una sua razza equina o suina, degna di rilievo per capacità produttiva e per redditività, ed addirittura neanche, e questo è estremamente significativo, di una sua razza ovina o caprina. Soltanto in antichi testi di zootecnia è fatta menzione e si trova una sommaria descrizione di una razzetta ovina: la cosiddetta “Gentile d’Abruzzo”, localizzata al Sud, ai confini con la Puglia, a triplice attitudine: latte, lana, carne, e che scompare rapidamente nella storia. Agli inizi del secolo XV il patrimonio ovino abruzzese era costituito da una popolazione di circa trecentomila capi, a conduzione forzatamente autarchica, di razze indigene varie, ed indefinite. E’ logico pensare, dedurre e quindi affermare che la presenza di cani, a quel tempo, era in rapporto a questa limitata consistenza. Forse tremila soggetti, ove si voglia considerare un cane ogni cento pecore.
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Mentre l’Italia, nello stesso periodo, contava su di una popolazione ovina di oltre sette milioni di capi, dislocati prevalentemente nelle isole, al Sud, ma anche al centro, nelle Marche ed in Toscana, di meno al Nord. E’ sempre logico arguire, dedurre e quindi affermare che presenza di cani nel resto dell’Italia continentale era molto numerosa e di gran lunga superiore a quella abruzzese. Come precedentemente accennato, soltanto nel 1447 la promulgazione dell’Editto Aragonese e la contemporanea apertura di alcuni valichi, il prolungamento dei tratturi esistenti e la regolamentazione del loro uso, permise ai pastori abruzzesi di uscire dai loro confini e stabilire rapporti con le regioni limitrofe ed i loro abitanti.
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La storia riporta il verificarsi di un naturale impetuoso travaso di genti e di animali, tanto che alla metà del secolo successivo, cioè circa cento anni dopo, la popolazione ovina si era quintuplicata. Dopo altri cento anni la popolazione ovina abruzzese si era più che decuplicata, raggiungendo il suo massimo storico, circa quattro milioni di capi, mentre in tutto il territorio nazionale gli ovini allevati erano circa dodici milioni di capi. Ovviamente erano entrati in Abruzzo un numero rilevantissimo di pecore e di conseguenza di cani. Le pecore introdotte provenivano dall’Appennino umbro/marchigiano ed erano di razza appenninica, vissana e sopravissana; provenivano dalle Maremme e dalla campagna romana, ed erano di razza maremmana; provenivano dal Tavoliere e dalla Capitanata ed erano pugliesi. Erano tutte razze dalle grandi capacità produttive, non paragonabili a quelle della loro Gentile d’Abruzzo, scomparsa per sistematiche azioni di incrocio di sostituzione ed assorbimento. Attualmente la consistenza numerica della popolazione ovina abruzzese si aggira sui sei settecentomila capi, ricostituitasi dopo un pauroso calo provocato dalle tristi vicende belliche dell’ultima grande guerra. La popolazione ovina si è ancora una volta ricostituita con animali provenienti dalle regioni confinanti. Altrettanto è avvenuto a livello di popolazione canina che si è ricostituita con cani di altre regioni. Anche lo studio comparato delle genealogie dal secondo dopoguerra ci documenta la discendenza da cani di regioni vicine. Dopo quanto ampiamente riportato non trova alcuna giustificazione l’affermazione, secondo la quale la patria del nostro grande cane bianco da pecora è l’Abruzzo e quindi abruzzese deve chiamarsi la sua razza.
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Non certo con slogan, come oggi si sentono ripetere, o con opinioni espresse , superficiali e soggettive di qualche Giudice che si autodefinisce “specialista della razza” e che vuol farsi notare e far carriera, o di qualche “ricercatore” che si ritiene ben informato e depositario della verità. Non è neanche motivo valido, perché nella denominazione della razza, debba sparire “maremmano”, solo perché nelle Maremme attualmente la popolazione ovina e quindi canina è andata notevolmente riducendosi di numero.
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Questa riduzione è avvenuta a seguito di un fatto contingente, la riforma fondiaria, che ha ridotto molti spazi pascolativi, ma già molti prevedono una nuova riconversione che la Natura impone, ed un ritorno allo stesso passato. Non si può neanche tirare in ballo un censimento di cani al seguito delle greggi, fatto agli inizi dell’anno 972, che dette un’indicazione vaga della distribuzione geografica di questa popolazione canina. E’ fuori discussione che i cani bianchi in Abruzzo attualmente si incontrano di frequente, specialmente nel periodo estivo, ma si incontrano anche nell’Appennino Umbro Marchigiano e Tosco Romagnolo, e seppure di meno, anche nell’Appennino Calabrese, e Lucano. Da quanto sopra indicato e riferito, alla luce di tutte le realtà indicate non esistono ragioni e modificazioni valide perché questa razza canina debba cambiare denominazione, ne tanto meno esistono presupposti perché si possa parlare di un’altra razza bianca esistente in Abruzzo, cioè del ”mastino abruzzese” che, a parte la denominazione, si dice, deve essere di tipo lipoide, con caratteristiche etniche del tutto simili a quelle del pastore maremmano abruzzese, salvo qualche piccola sfumatura di linee e profili, di non facile individuazione. A meno che non si voglia attribuirgli le radici in quei tre mila cani circa presenti agli inizi del secolo XV, di cui si è parlato agli inizi di questa nota, che soltanto la storia ricorda, ma di cui, per lo meno zootecnicamente parlando, si sono perdute le tracce, come d’altronde si sono perdute le tracce dei trecentomila ovini della razza gentile d’Abruzzo, di cui i tremila cani erano al seguito. Non è trascurabile neanche la circostanza per la quale, in questi ultimi anni, tantissimi cani dell’Abruzzo, presentati dai loro padroni, pastori, ai vari raduni di Campotosto e de l’Aquila, abbiano avuto il riconoscimento di tipicità per la razza maremmana abruzzese e conseguentemente il relativo certificato per la loro iscrizione al libro italiano riconosciuti.
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Laureato in Medicina Veterinaria a pieni voti presso l’Università degli studi di Perugia, diventa Capitano Medico Veterinario del Ruolo Sanitario alla Scuola per Ufficiali Veterinari dell’Esercito di Pinerolo (TO). Finita la seconda grande guerra è Medico Veterinario civile, Direttore provinciale della Zootecnia della Provincia di Terni E.E.N.A. Titolare della Cattedra di Zootecnia presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “A. Ciuffelli” di Todi, si dedica dal 1950 con l’affisso Enci dei cani da pastore di “Jacopone da Todi”, alla selezione della razza del cane da Pastore Maremmano-Abruzzese e dei Monti del Caucaso, di cui è nel 1972 fra i padri fondatori del CPMA e autore di numerosi saggi e pubblicazioni su diversi libri e riviste di cinofilia, come da ultimo ha curato la stesura delle sezioni sui Pastori Maremmani Abruzzesi nei libri “I Pastori Italiani” De Vecchi Editore.
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