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1. Introduzione
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Come accade sovente per i grandi personaggi altrettanto, sembra, debba accadere per questo cane. Tutti vorrebbero che la propria regione fosse stata ad averlo originato ed avergli dato di conseguenza il nome. Peccato che ogni logica talvolta venga travolta da un accanito campanilismo ed ogni cosa si complichi, le idee si confondano, ed amletici dubbi creino perplessità, incertezze ed inutili diatribe. Per mio principio, in ogni caso, rispetto le opinioni degli altri seppure in contrasto con le mie, che cerco di esporle, provarle e documentarle lasciando poi ad altri di confrontarle ed in seguito arrivare alla verità. Così vorrei avvenisse in questa occasione. L’Ente Nazionale della Cinofilia Italiana nell’anno 1958 attribuì ufficialmente a questo cane il nome di “Cane da Pastore Maremmano Abruzzese” quando, apparentemente risolta ogni controversia, constatò che tutti erano d’accordo nel ritenere che le Maremme, intese come “maritimae” cioè terre affacciantesi sul mare, e l’Abruzzo erano i due ambienti in cui il cane aveva avuto il suo splendido sviluppo, erano i due territori in cui la popolazione canina in oggetto era, a quel momento, più rappresentata, presente e attiva nelle numerose iniziative pastorali che nelle zone sopradette costituivano la base principale dell’economia, ed, in questi due ambienti il nostro cane era stato sempre presente in questo ultimo millennio. Non si è però tenuto in debita considerazione che l’Abruzzo e le Maremme rappresentavano i cardini di un sistema secolare, cioè della transumanza, che le legava, e che il cane non era presente soltanto in Abruzzo e nelle Maremme, ma in tutta la dorsale appenninica, sulla quale, non vada dimenticato, si praticava l’attività pastorale. L’Appennino, tutto, aveva dato i natali e vita ai pastori e al loro bestiame: ovini in prevalenza, che, durante i lunghi periodi invernali, per la neve abbondantemente caduta a ricoprire i pascoli, li costringeva a scendere al piano, per assoluta necessità di sopravvivenza. Ma su ciò tornerò in seguito. In quell’anno si celebrò, quindi, il battesimo del cane da Pastore Maremmano-Abruzzese. Gli fu dato il nome che attualmente porta perché l’ENCI, avvalendosi della collaborazione del valente Professor Solaro, del Comitato Tecnico del Circolo del Pastore Maremmano-Abruzzese e di alcuni esperti, lo deliberò dopo aver indicato i caratteri etnici della razza e compilato lo standard che, fra l’altro, nei brevi cenni storici, riporta “ … e, in cani da pastore un tempo presenti nella Maremma toscana e laziale. …”. Da quel momento si aprì un nuovo capitolo della lunghissima storia di questa importante razza canina italiana. Fu giusto e opportuno unificare le due razze esistenti: “la Maremmana” e “l’Abruzzese”, in quanto razze non erano, ma se mai varietà, in quanto tra esse non esistevano differenze, né a livello morfologico, né attitudinale che avessero carattere di genotipicità. Il deliberato dell’Enci voleva anche acquietare gli animi, sedare le accese passioni che animavano coloro che sostenevano, a spada tratta, e senza ragione, ed affermavano: il cane è maremmano; no, il cane è abruzzese, e discutevano all’infinito, senza trovarsi d’accordo, solo perché erano animati da esasperato spirito campanilistico, senza chiarezza di idee, privi di conoscenze tecniche e storiche, ed anche di buonsenso. Parve il risultato di un compromesso e chi, come il sottoscritto, seguiva la storia e le vicende della razza, lo percepì, lo ricorda; si rammarica…
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2. Il continente asiatico e le origini
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La dottrina è pressoché unanime nel ritenere che la vera origine di questa razza risalga a molti secoli or sono, e che la sua vera culla sia stata il lontano Tibet presso gli Arii. La storia ci dice che questo popolo dedito all’agricoltura e alla pastorizia, 2000 anni avanti Cristo, iniziò un lento spostamento verso Occidente, sospinto da necessita di spazio e terreni fertili, necessari alla sua sopravvivenza. E’sufficiente dare uno sguardo alla cartina che raffigura il continente Asiatico ed Europeo per rendersi conto che agli stessi non si poteva presentare altra alternativa. Superato con grandi sacrifici e fatiche il Caracorum, il Pamir ed il Turchestan Occ., evitando di allontanarsi dal 40° parallelo per non andare incontro a freddi più intensi, a questa gente si offrì una vasta distesa pianeggiante, ubertosa e ricca di acque: il Bassopiano Turanico con il grande Lago d’Aral, che poteva assicurargli abbondanza di pascoli, fertilità di terreno, buona caccia e ottima pesca. In questa zona, senz’altro, la sosta fu lunga, probabilmente di secoli. Al seguito di questa gente si spostavano anche mandrie di bestiame, guidate da numerosi cani impegnati anche alla loro protezione. Questi cani senz’altro possono considerarsi gli antenati di molte attuali razze europee, tra le quali la nostra. Questa popolazione, nel frattempo cresciuta di numero, fu costretta a riprendere il cammino ancora verso Occidente, verso il Mare d’Azof, l’Ucraina meridionale, la Podolia e la grande valle del Danubio. Qui ci fu una lunga sosta, poi di nuovo divisasi in due gruppi, si diresse a Nord verso la Pianura Ungherese e verso le alture della Penisola Ellenica. Risulta che il gruppo più numeroso fu quello diretto a Nord. Quindi l’Europa risultò invasa da queste genti, di cui una parte attraversò ancora le Alpi, dilagò nella Pianura Padana e da qui nella lunga dorsale appenninica e nelle due fasce rivierasche che da essa si originavano, fino a Sud di tutta la penisola. Gli Arii si ricordano come una popolazione tranquilla e pacifica, impegnata nel lavoro dei campi, nell’allevamento e nel commercio. Non per questo però il loro lento trasferimento fu tranquillo ed il loro comportamento bucolico. Talvolta divenne aggressivo, violento, crudele, barbaro, specie nell’incontro con altre popolazioni autoctone non disposte ad accoglierli. Il loro cammino verso occidente fu contrastato dalle Milizie Romane che intendevano estendere i confini dell’Impero verso Oriente, dal momento che al Nord questo era già avvenuto. Incomincia l’occupazione Romana della Pannonia, Dalmatia, Dacia, Tracia, Macedonia, Asia, Cappadocia, Armenia e la loro colonizzazione.
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3. La penisola italica e la storia
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I costumi dei popoli non cambiano comunque e l’agricoltura e la pastorizia rimangono le attività primarie se anche nel frattempo altri secoli sono passati ed uomini e animali, tra i quali i cani, sono andati incontro a lente, ma già visibili modificazioni nel loro aspetto e nel loro comportamento. Ma ritorniamo in Italia. La Pianura Padana era in quel periodo un’ampia distesa di verde, ricca di corsi d’acqua e con un clima piacevole. L’Appennino apparve per quelle genti di origini montanare un territorio abitabile, perché costituito da alture non inaccessibili e da ampie vallate in cui la sosta ed il riparo erano assicurati. La vegetazione, rappresentata da vaste radure pascolative e da boschi di quercia, castagne e faggio, garantiva l’alimentazione delle varie specie di loro proprietà: ovini in prevalenza, ma anche bovini, equini e suini. Più in basso “le chiuse” permettevano anche colture cerealicole, ed arboricole come la vite e l’olivo. Ed in certe zone nacque il podere, di cui si legge: “ abbia il podere le siepi e folte e alte, gli argini, o i fossi o gli steccati o i muri sicchè bestia non entri”. Più a sud, sempre l’Appennino apparve modificato in quanto ai boschi si erano sostituiti grandi massicci calcarei come quelli dei Monti Sibillini, Reatini, Sabini, Simbruini, Ernici con il Gran Sasso, il Velino, la Maiella, la Meta, il Matese. Comunque, in grado di assicurare la vita agli uomini ed agli animali, se anche con una problematica diversa e più rude. I due versanti appenninici, l’orientale e l’occidentale costituirono a loro volta spazi vitali in cui, con il volgere delle stagioni, era agevole il transito con brevi soste per l’alimentazione degli animali e l’esercizio del commercio e degli scambi. Le due riviere, “le maremme”, così chiamate dal termine latino “marittimae”, che “si affaccia sul mare”, le quali sfociavano al termine di tracciati naturali detti “tratturi”, costituirono l’anello con cui si creò la saldatura necessaria per tutto il ciclo vitale degli animali e degli uomini che aveva la durata di un anno compresi l’estate e l’inverno e viceversa.
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Museo archeologico di Perugia: scene di vita romana
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Dall’Appennino a queste zone si creò uno stretto rapporto che prese il nome di “transumanza” (trasferimento lento). Pratica presente già al tempo dei Romani, così come alcuni classici la nominano, e che la storia riporta, parlando delle “Calles pubblicae” (pubblici sentieri), con privilegio di pascolo e di transito, che Teodisio (a. 400) e Giustiniano (a. 480) codificano. In questo territorio nostrano la razza canina in oggetto trascorre i momenti più significativi del suo sviluppo filogenetico, assumendo sembianze sempre più simili a quelle attuali. Ma presso gli Etruschi aveva acquisito certe somiglianze.
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Questo popolo è amante di cani e sovente li raffigura. Abbiamo molto materiale archeologico che conferma quanto sopra. Ad esempio: al Museo Archeologico di Perugia, su un lato di un sarcofago noto con il nome di “Cippo di Perugia”, in bassorilievo, si nota la figura di un cane di grande mole, a pelo lungo e leggermente ondulato, di colore chiaro, con testa di tipo lupoide, orecchie piccole, leggermente orizzontali e rivolte in avanti, che tutto sommato, considerato le successive variazioni, potrebbe anche apparire come un antenato del nostro pastore maremmano abruzzese.
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I Romani lo chiamavano “cane da pecora” come ancora i pastori dell’Appennino e delle pianure, sia al Nord che a Sud. Marco Porcio Catone (234 a.C.) lo chiama “canis pastoralis”, poi “pecuarius”, quando frequentemente lo nomina nella sua opera “De Agri Cultura”, in cui precisa, fatto importantissimo, su cui si basano mie successive affermazioni che è diverso dal “canis epiroticus” (molosso dell’Epiro, allora Molossia) che è scuro di mantello, pesante di testa e di corpo, a pelo raso, feroce, adatto per la guardia alla “villa”; che è diverso anche dal cane “laconicus” o “spartano”, che ha mantello fulvo, leggero di testa e di corpo, a pelo raso, velocissimo, adatto per la caccia.
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Museo archeologico di Perugia: scene agresti
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Questo classico conosceva bene i cani, perché si legge della sua vita: figlio di agiati agricoltori, lavorava al fianco dei suoi schiavi, accudendo personalmente al numeroso bestiame che possedeva: bovino e ovino, originariamente dalla Podolia, quella regione cioè che gli Arii avevano attraversato, sostandovi a lungo, e da cui molte razze bovine di oggi, esistenti in Italia: la Romagnola, la Marchigiana, la Maremmana, la Pugliese, derivano. Non credo che possa essere considerato un caso fortuito che queste razze si trovavano nelle regioni in cui è numerosa la presenza dei nostri cani maremmani abruzzesi. Così non credo che sia un caso che razze simili: bovaro ungherese (Kuvasc); cane di montagna di Tatra, cane da montagna dei Pirenei e di Andorra, si trovino nelle Regioni in cui il popolo precedentemente nominato è passato, si è fermato per lunghissimi anni con i suoi animali, compresi i cani. Non mi risulta, pur avendo fatto molte ricerche, che cani di questo tipo siano frequenti nell’Ellade. Pertanto, credo possa essere facilmente dimostrabile che, questo cane da pastore italiano presso di noi, discese lentamente dal Nord verso Sud, e non nel senso inverso.
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4. Le controversie storiche
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E’ qui, su questa ultima ipotesi, che nasce l’oggetto della controversia con chi afferma che: “l’ipotesi migliore per spiegare la diffusione del cane in Italia è di pensare ad una previa diffusione del cane dall’Asia in Grecia, e da lì una sua successiva esportazione nell’Italia meridionale”. Né una lunga descrizione della pastorizia in Abruzzo è sufficiente per convalidare l’affermazione per la quale il cane dovrebbe chiamarsi “abruzzese”, in quanto la pastorizia è un’attività primaria, se anche con alterne vicende, di altre regioni italiane.
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"Lupo attaccato dai cani" di Jean-Baptiste Oudry (1686-1755), Muso Compiègne
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Credo che Marco Varrone Terenzio “il Reatino” (116/27 a.C.), che sovente chiamano in causa anche altri, mi possa essere di grande sostegno. Nel suo “De rerum Rusticarum” fa un’ampia descrizione del “canis pastoralis”, anzi dei suoi, che numerosi manteneva con le sue greggi che “nam mihi greges in Abulia hibernabant, qui in Reatinis montibus estivabant ….. sic calles publicae distantes pastiones”, aggiunge che “capitibus et auriculis magnis et flaccis”, “colore potissimum albo”. Nel raccomandarne la scelta prosegue “item videndum ut boni seminii sint; itaque et a regionibus appellantur Lacones, Epirotici, Sallentini. Questa frase va intesa, secondo me, diversamente da
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coloro che hanno affermato che i cani in questione provengano da queste regioni elleniche (non certo Sallentini), antenati quindi dei migliori presso di lui, e cioè: come una raccomandazione perché si abbia cura che i cani siano di buon seme, come lo sono i cani Epirotici, della Laconia e del Salento. Anche la traduzione di Girolamo Pagani che si legge su un testo edito a Venezia nel 1846 da Giuseppe Antonelli editore lo conferma, così come quella di Alfredo Bartoli riportata nel testo “Collezione Romana” di E. Romagnoli della Reale Accademia d’Italia, Ed. Notari Milano 1930. Ripete questi concetti anche Virgilio (70/19 a.C.) nelle Georgiche quando scrive: ”nec tibi cura canum fuerit postrema, sed una veloces Spartae catulos acremque Molossum pasce serum pingui” che tradotta vuol dire: non ti mettere dietro le spalle la cura dei cani, ma nutrili abbondantemente come i veloci cani di Sparta (lacones) e il feroce molosso (epiroticus). Li ripete anche Orazio scrivendo “nam qualis aut Molossus, aut fulvus Lacones, amica vis pastoribus”. Ripete che i cani della Laconia sono fulvi, ed, oggi, è assolutamente inaccettabile che si dica, per stabilire una relazione, che anche nel cane da pastore maremmano abruzzese talvolta appare il fulvo, considerato fase geneticamente antecedente al bianco.
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5. La pastorizia ed il suo cane da pastore: attività primaria diffusa in tutta la Penisola Italica.
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5.1 Profilo storico, sociale ed economico.
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Per quanto riguarda l’attività pastorale in Italia resta facile documentare la sua diffusione in tutta la Penisola ed in particolare al centro e al Sud. E’ necessario rifarsi un po indietro nel tempo e vedere tutte la vicende italiane, storicamente riferite
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Pastorizia appenninica
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Per lo meno torniamo al Medioevo, in cui il frequente susseguirsi di dominazioni straniere e nazionali provocò il verificarsi di alterne vicende in tutti campi. Con Odoacre (476) e poi con i Goti (490/553) la grande proprietà si ridusse e l’agricoltura e l’allevamento ne trasse vantaggio. Con il dominio Bizantino (553/569) e con i Longobardi (569/774) la penisola tornò ad una miseria morale e materiale profonda. I campi divennero deserti ed i villaggi semidistrutti per le continue guerre, il bestiame si disperse. La popolazione italiana non superava i sei milioni di abitanti, prevalentemente dedita all’attività silvo/pastorale.
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Il Papato chiamò i Franchi che, sottomisero i Longobardi e si insediarono nel paese (774/888). Dettero vita al Feudalesimo che durò al Nord sino al 1300 circa, mentre nel Meridione ebbe inizio il periodo normanno che durò, più o meno sino alla Rivoluzione Francese. I Re Franchi assegnarono ai loro dignitari ampie proprietà, a volte intere Regioni. Nacquero i Vassalli (laici e vescovi) e i valvassori con privilegi dipendenti alla “ius lignandi e pascendi” con economia cerealicola e pastorale. Poi incominciarono le lotte fra il Papato e l’Impero (germanico succeduto a quello Carolingio), che terminarono con le libertà Comunali. Le isole erano passate sotto il dominio arabo. Alcuni ordini religiosi, il Benedettino ed il Cistercense svolsero nel frattempo opera benemerita nel campo della coltura e in quello agrario. Dopo i comuni iniziarono le Signorie: i Visconti, gli Sforza, gli Estensi, gli Scaligeri, i Gonzaga, i Medici ed altri che si divisero ampi territori del Nord e del Centro. Intanto, come precedentemente accennato nel Meridione i Normanni (1060/1190), gli Svevi (1190/1266), gli Angioini (1266/1435) stabilirono le loro dominazioni determinando periodi di ricchezza e di miseria. Nel meridione l’allevamento ovino fu sviluppato in modo particolare; Federico ΙΙ (1198/1250) riordinò i tratturi e le trezzare, in Puglia costituì la “la Mena delle pecore”. Dalla Spagna furono introdotti molti soggetti di razza pregiata, per migliorare la produzione della lana. Nel Centro i Papi non considerarono da meno questo tipo di allevamento che assunse dimensioni notevoli, tanto che preoccupati di questo, per proteggere l’allevamento bovino intervennero limitando i pascoli. Il Governatore di Piediluco (1484) stabilì delle zone in cui questi potevano essere mantenuti: “affinché possano comodamente sostentarsi le bestie bovine e altre bestie grosse, le quali per il grande numero delle pecore e delle capre non possono sostentarsi, anzi, per le mancanze delle erbe, più diminuiscono e deteriorano”. Poi in Italia si stabilì il domino Spagnolo (1536/1706 al Nord) e (1409/1713 al Sud), che provocò sensibili ripercussioni economiche, arrestando il progresso agricolo che si era avviato. Particolarmente al Sud, una certa casta baronale si era imposta rendendo la popolazione quiescente, per la clientela o per il fatalismo. Al Nord il risveglio fu più rapido per una mentalità diversa del popolo e per la fortuna di passare sotto dominazioni più tolleranti ed attive, come ad esempio per quanto si verificò in Toscana, ad opera dei Lorenesi (1737/1790) che avviarono e portarono a termine opere di grande rilievo sia nel campo agronomico che in quello delle bonifiche. La Maremma subì una una profonda e larga bonifica che vide utilizzato quasi per intero il suo vastissimo territorio per l’allevamento del bestiame bovino ed ovino. La Rivoluzione Francese provocò anche in Italia una profonda ripercussione nei settori sociali ed economici. Si cominciò a formare la proprietà privata agraria di diverse dimensioni, anche notevoli, operante con una mentalità più moderna rispetto almeno a quella del passato, sia per quanto riguarda il rapporto tra padrone e dipendente, sia per quanto riguarda la mentalità già imprenditoriale che si andava diffondendo.
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Viaggi nell’Appennino
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Si incomincia a notare il divario fra il Nord, il Centro e il Sud per un progresso che si avvia verso il futuro con movimento decrescente come la latitudine. Intanto la popolazione italiana si era accresciuta passando dai 18 milioni del 1800 ai 25 milioni del 1860, e la produzione alimentare aveva raggiunto l’autosufficienza. L’Unificazione d’Italia provoca un certo naturale disorientamento, di cui a tutt’oggi qualche traccia si rileva. Lo sfruttamento del terreno e dell’allevamento incomincia a diversificarsi: intensivo al Nord, meno al Centro, estensivo ancora al Sud.
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La popolazione ovina, che è quella che maggiormente ci interessa perché in essa troviamo in proporzione la presenza dei nostri cani raggiunge dagli anni 1866 al 1908 livelli numerici e qualitativi notevoli, raddoppiando gli effettivi che raggiungono l’entità notevole di circa 12 milioni di capi. Questa consistenza risulterà la punta massima raggiunta, dalla quale per fatti a tutti noti e che quindi è inutile riportare, inizia una lenta e costante discesa.
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5.2 Perché questa denominazione
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Questo scorcio storico si prefigge lo scopo di informare il lettore della situazione ovina nazionale venutasi a determinare attraverso i secoli, ma vuole altresì dimostrare e provare come non siano stati soltanto gli Abruzzi ad avere una tradizione pastorale, ma senz’altro lo siano state anche le altre regioni appenniniche quali il Lazio, l’Umbria, le Marche, la Toscana, la Puglia. Tutte regioni che hanno testimoniato che alla presenza di pecora seguiva l’instancabile custodia dei cani da pecora di cui abbiamo parlato e che abbiamo notato più o meno numerosi a seconda della fortuna o sfortuna della pastorizia in questa o in quell’altra zona.
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Viaggi nell’Appennino
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La grande ultima guerra ha profondamente sconvolto questa attività, perché il conflitto più feroce si è espresso lungo la dorsale appenninica e nei suoi naturali contrafforti e lungo le coste, ove il continuo timore di sbarchi aveva allontanato le genti e le greggi. A questo sconvolgimento materiale ha fatto seguito quello morale e molto è cambiato. In talune regioni la pastorizia ha ceduto definitivamente, in altre zone ha ridotto le dimensioni e l’entusiasmo, come ad esempio in Abruzzo; in altre zone, come ad esempio in quelle collinari toscane, marchigiane, umbre, laziali ha trasformato i sistemi di allevamento che da transumante è diventato stanziale.
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Le persone dedite alla pastorizia da generazioni hanno abbandonato, così come hanno abbandonato i mezzadri che conducevano l’allevamento poderale tipico dei territori a conduzione mezzadrile. Questi vasti territori pedemontani sono stati acquistati da pastori sardi. Sono mutate le persone e la razza degli ovini, certamente in prevalenza sardi, ma non i cani, riconoscibili per le loro caratteristiche, a svolgere la loro secolare funzione. Ecco perché ho voluto affrontare molti aspetti del problema, l’aspetto storico è importante, quello socio economico altrettanto, quello cinotecnico non di meno, tutti risultano precisi e concordanti nella giustezza della denominazione che ha il nostro “cane da pastore maremmano abruzzese”, perché la sola denominazione di “abruzzese” non avrebbe motivazione altrettanto valida, ma solo valore di privazione del suo significato universale. Questo nome dovrebbe accompagnarlo nella sua futura evoluzione perché, per assurdo, ove si dovesse tener conto di una sua maggiore o minore presenza in un territorio, ed in dipendenza di questo dovesse essergli attribuito il nome, questo, finirebbe con essere continuamente modificato nei secoli e quindi condannato ad essere costantemente provvisorio o dipendente da opinioni e punti di vista dell’uno o dell’altro.
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5.3 Una teoria senza fondamento
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Siamo nell’anno 1988, il 30 aprile a l’Aquila, eppure, quanto era stato previsto in questa ultima parte, è avvenuto.
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Viaggi nell’Appennino
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In un convegno indetto dalla Regione Abruzzo, alcuni politici locali, illustrando una loro legge per la tutela del cane dei pastori abruzzesi, hanno proposto una nuova e singolare denominazione: “Mastino Abruzzese”. Tra le varie relazioni, Breber, Ricercatore CNR, ha affermato: “La patria della razza è l’Abruzzo”. Il caporedattore di un autorevole mensile di cinofilia nel dibattito, asserisce: ‘il riconoscimento di una razza può avvenire in tre anni’, non precisando però, se intendesse dal punto di vista filogenetico, oppure burocratico, amministrativo. Veri e propri slogans! Che pronunciati in quella sede e in quella occasione, si sarebbero potuti accettare, se usciti dalla bocca di persone meno qualificate.
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Ed allora, siccome in Italia, purtroppo, in Cinofilia, a parlare di cani, sovente, troppo spesso, sono persone con vaghe conoscenze di zootecnica, che ritengono il cane animale diverso da tutti gli altri, cosiddetti di interesse zootecnico, non è possibile tacere e non intervenire e dire, con tutta franchezza, seppure con un certo rammarico, che non si dovrebbe teorizzare di cinofilia in generale e del cane da pastore maremmano abruzzese in particolare, possedendo superficiali conoscenze di Scienze, Biologia, Anatomia e Fisiologia animale, Zootecnia, ne tanto meno disquisire di argomenti di filogenesi e tassonomia, senza per altro tener conto del contesto storico sociale, in cui una razza si è venuta formando, quindi sviluppata ed evoluta.
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5.4 Analisi zootecnica, filogenetica e tassonomica - “Razza da pastore dell’Appennino”
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Tutti i testi di Zootecnia Generale riportano le varie teorie evoluzionistiche di Vanini, E. Darwin, di Lamarck, di Saint Hilaire, di C. Darwin, di De Vries e di molti altri contemporanei. Altrettanto riportano i criteri con i quali si deve procedere alla qualificazione delle specie e delle razze, secondo Linneo, Cuvier, Buffon, Cornevin, Dechambre. Danno il significato di specie, razza, varietà, patria o culla. Gli argomenti che quì adduco sono trattati da questi autori. a) Per razza si intende un complesso di individui con caratteristiche proprie a livello anatomico, fisiologico, morfologico, trasmissibili alla discendenza. b) Per la sua formazione, in quanto popolazione mendeliana, fatta di genotipi o meglio ancora di geni, originata dalla segregazione di essi nella gametogenesi, influenzata dai più diversi fattori ambientali, attraverso un vario succedersi di fenomeni, occorrono tempi lunghi, senz’altro decenni. c) Che l’ambiente, a volte ristretto, in cui essa si forma e si realizza, prende il nome di culla o patria. d) Che la sua denominazione deriva, generalmente, dal nome di questo ambiente territoriale, geografico, talvolta con l’aggiunta di qualche attributo, che maggiormente ne permette l’individuazione e la differenziazione.
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Viaggi nell’Appennino
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Siccome con questo criterio, hanno avuto nome tutte le razze di interesse zootecnico, non si comprende il perché altrettanto, non dovrebbe avvenire per questa razza canina. Ricordo: nei bovini esiste la razza Chianina, Marchigiana, Romagnola, rispettivamente sorte in val di Chiana, Marche e Romagna; negli equini esiste la razza Sarda, Siciliana, Murgese, la cui culla rispettivamente è la Sardegna, la Sicilia, le Murge; negli ovini esiste la razza Vissana e Sopravissana, la Bergamasca, la Leccese, l’Appenninica, da Visso, Bergamo, Lecce, Appennino. L’ENCI nel 1958, adottò questo criterio, quando attribuì il nome: “ razza da pastore maremmano abruzzese”: considerò evidentemente le Maremme e l’Abruzzo i territori in cui la razza era comparsa, formata, evoluta.
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Certamente se, in quel periodo, fossimo stati più diligenti e responsabili nel seguire la nostra razza, che viceversa avevamo trascurato, e di questo noi, sopravvissuti, abbiamo grave colpa, avremmo avuto validi motivi per darle una denominazione senz’altro più propria, di cui tutti, oggi, saremmo stati più soddisfatti e cioè: ”razza da pastore dell’Appennino”, tenuto conto che nell’intera dorsale appenninica essa era comparsa, ancora prima che nelle Maremme, ancora prima che in Abruzzo, perché qui aveva trovato la sua seconda “culla”, dopo il suo ingresso in Italia, attraverso le Alpi. Non dimentichiamo che nei Monti di Tatra, abbiamo il Cane di Tatra, in Ungheria, abbiamo il Pastore Ungherese, nei Pirenei abbiamo il cane dei Pirenei, tutti derivanti dallo stesso ceppo. Se l’ENCI, nel 1958, avesse seguito un criterio zootecnico e avesse tenuto conto di principi scientifici, quali quelli della filogenesi delle razze e della tassonomia, così come era stato fatto per tutte le altre razze di tipo zoo-agricolo, avrebbe dato infatti alla nostra razza una denominazione più consona e più propria, quella cioè che razionalmente le spettava: cane da Pastore dell’Appennino, perché questa, ripeto, è la parte dell’Italia in cui il cane bianco appare e qui trascorre la gran parte dell’anno, da maggio a novembre, insieme ai pastori, che qui hanno la loro dimora, la loro residenza, che qui lasciano la loro famiglia, anche quando transumano. Una simile soluzione non sarebbe stata un compromesso, ma sarebbe apparsa, oltre che coraggiosa e radicale, certamente la più razionale perché avrebbe lasciato tutti soddisfatti e tranquilli. Avrebbe trovato la propria giustificazione in tutta la storia della ovinicoltura italiana e della pastorizia.
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5.5 L’Appennino abruzzese
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Torniamo all’Abruzzo, che l’amico Paolo Breber dice essere la patria del cane. Riconosco che questa Regione, che ha tutta una sua configurazione particolare, che è interessata dall’Appennino prevalentemente con rilievi alti e rocciosi, non tutti pascolativi, con una innegabile tradizione pastorale, ha avuto la sua parte nella formazione della nostra razza canina, ma non in esclusiva, perché storicamente parlando, la stessa razza era presente nell’Appennino Umbro Marchigiano, nell’Appennino Tosco Romagnolo e Laziale. Come scrivevo, in tempi remoti migrazioni di popoli nomadi, dediti all’agricoltura e alla pastorizia provenienti dal centro del continente asiatico, raggiunsero anche l’Italia e si insediarono dapprima nei territori nei quali i pascoli erano abbondanti e i corsi d’acqua permanenti e con clima mite, e qui rimasero a lungo. Quindi, nella necessità di altri spazi, probabilmente pressati dalla migrazione di altri popoli, si diressero e sostarono nei tratti montuosi più accessibili e più adatti alla loro vita e a quella dei loro animali; successivamente occuparono altri tratti, meno accessibili, più aspri e meno ospitali, più erti, ma comunque a loro indispensabili per il sostentamento delle greggi e delle mandrie, che nel frattempo erano cresciute di numero. Il tratto appenninico abruzzese fu probabilmente interessato da questo fenomeno migratorio molto più tardi, perché meno ospitale per la sua naturale geofisica e per l’indole della sua gente. Però, rispetto agli altri tratti, l’Appennino abruzzese aveva il vantaggio di essere relativamente vicino alle pianure, quali quelle maremmane, laziale e pugliese, anche se questo vantaggio divenne veramente sfruttabile soltanto dopo l’apertura di passaggi e di valichi ed il prolungamento di tratturi già esistenti al prezzo di immani fatiche umane. Questo avvenne soltanto nel XV secolo, quando l’Abruzzo ruppe il proprio isolamento millenario e stabilì contatti con Roma e la sua campagna, con il Reatino, l’Umbria e le Marche e a sud con le Puglie, dove le greggi in estate poterono affluire in massa, in virtù dell’editto di Alfonso I d’Aragona, divenuto operante nell’anno di grazia 1447. Ripeto, l’Abruzzo fino a quella data era rimasto pressoché totalmente staccato dal resto del paese e costretto, per la sua configurazione orografica, a un assoluto e forzato isolamento. Risentì tardi del moto umanistico rinascimentale, rimanendo al riparo dall’urto immediato degli avvenimenti storici più significativi del Paese che, nel frattempo, avevano coinvolto ed interessato altri popoli confinanti. Anche Roma, che aveva allargato smisuratamente il suo impero anche oltre i confini peninsulari, non era riuscita a rompere questo millenario isolamento, né era riuscita ad imporre il suo dominio su popolazioni bellicose ed irriducibili, chiuse e protette dai loro invalicabili confini naturali, in un territorio che, tra l’altro, non offriva molto, tanto da motivare una guerra di conquista. L’Abruzzo, allora, aveva anche problemi di coesistenza fra i popoli che lo abitavano. Equi, Marsi, Peligni, Vestini, Marrucini, in eterna contesa fra di loro, formavano una comunità dal destino piuttosto singolare, per la tenace e caparbia fedeltà alle loro forme agricole, economiche e sociali, fatalmente e costantemente condizionate dal più primitivo e più stabile degli elementi: la Natura. Se queste circostanze favorirono il nascere di tanti Asceti e Santi, l’isolamento, la scarsa produttività unitaria del suolo coltivabile, i lunghi inverni sotto la neve, non hanno permesso uno sviluppo apprezzabile dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame, che non ha mai conosciuto la formazione di razze di vero interesse zootecnico. L’Abruzzo, perciò, non può vantare, a differenza di altre regioni italiane, una propria razza bovina, equina o suina degna di rilievo per capacità produttiva e per redditività, e addirittura neanche una razza ovina o caprina propria. Soltanto in antichi testi di zootecnia è fatta menzione e si trova una sommaria descrizione di una razzetta ovina; la cosiddetta “Gentile d’Abruzzo”, localizzata al sud, ai confini con le Puglie, a triplice attitudine: latte, lana, carne, che però scompare rapidamente dalla storia. Agli inizi del secolo XV il patrimonio ovino abruzzese era costituito da una popolazione di circa trecentomila capi, a conduzione forzatamente autarchica, di razze indigene varie, ed indefinite. E’ logico pensare, dedurre e quindi affermare che la presenza di cani, a quel tempo, era in rapporto a questa limitata consistenza. Forse tremila soggetti, ove si voglia considerare un cane ogni cento pecore. Mentre l’Italia, nello stesso periodo, contava su di una popolazione ovina di oltre sette milioni di capi, dislocati prevalentemente nelle isole, al Sud, ma anche al centro, nelle Marche ed in Toscana, di meno al Nord. E’ sempre logico arguire, dedurre e quindi affermare che presenza di cani nel resto dell’Italia continentale era molto numerosa e di gran lunga superiore a quella abruzzese. Come precedentemente accennato, soltanto nel 1447 la promulgazione dell’Editto Aragonese e la contemporanea apertura di alcuni valichi, il prolungamento dei tratturi esistenti e la regolamentazione del loro uso, permisero ai pastori abruzzesi di uscire dai loro confini e stabilire rapporti con le regioni limitrofe ed i loro abitanti. Si rese possibile l’accesso ai pascoli delle Puglie, realizzando una migliore regolamentazione dell’uso dei tratturi e quasi contemporaneamente si aprirono alcuni valichi che permisero una più agevole comunicazione con Roma e la sua vasta campagna circostante, con l’Umbria e le Marche, e presto la consistenza dei greggi, e la capacità produttiva degli stessi aumentò sensibilmente. La storia riporta il verificarsi di un naturale impetuoso travaso di genti e di animali, tanto che alla metà del secolo successivo, cioè circa cento anni dopo, alla metà del Cinquecento, la popolazione ovina si era quintuplicata con circa un milione e mezzo di capi. Dopo altri cento anni la popolazione ovina abruzzese si era più che decuplicata, raggiungendo il suo massimo storico superando i cinque milioni di capi, mentre in tutto il territorio nazionale gli ovini allevati erano circa dodici milioni di capi. Il cui fatto preoccupò i governanti dell’epoca, che intervennero con Leggi ed Editti restrittivi.
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Viaggi nell’Appennino
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Ovviamente erano entrati in Abruzzo un numero rilevantissimo di pecore e di conseguenza di cani. Le pecore introdotte provenivano dall’Appennino umbro/marchigiano ed erano di razza appenninica, vissana e sopravissana, provenivano dalle Maremme e dalla campagna romana ed erano di razza maremmana, provenivano principalmente dal Tavoliere e dalla Capitanata ed erano pugliesi. Erano tutte razze dalle grandi capacità produttive, non paragonabili a quelle della loro Gentile d’Abruzzo, scomparsa per sistematiche azioni di incrocio di sostituzione ed assorbimento. Le Cronache riportano una massiccia importazione di ovini di razza vissana e sopravissana dal Nord e da Occidente, così di razza maremmana, di razza gentile di Puglia dal Sud.
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Se anche le cronache non parlano specificatamente che in proporzione entrarono in Abruzzo anche cani da pecora, questo è facilmente deducibile, con il ragionamento e la logica. Un contributo considerevole alla regolamentazione degli spostamenti dei greggi è stato dato dalla Dogana della Puglia che ha rappresentato per alcuni secoli un saldo punto di riferimento per la transumanza. Questa consistenza numerica, nei secoli successivi, andò costantemente modificandosi. Attualmente la consistenza numerica della popolazione ovina abruzzese si aggira sui sei/settecentomila capi ovini e caprini, ricostituitasi dopo un pauroso calo provocato dalle tristi vicende belliche dell’ultima grande guerra. Nella maggioranza essi sono di razza vissana e sopravissana, appenninica, pugliese; nella minoranza, sarda e locale. La popolazione ovina si è ancora una volta ricostituita con animali provenienti dalle regioni confinanti. Evidentemente sono rimasti i soggetti derivanti dalle migliori linee di sangue, a suo tempo introdotte. Altrettanto si può dire dei cani, dei quali oggi, gli Abruzzesi, non i pastori, ma i politici dalla facile parola e grande fantasia dicono di essere i padri. Io direi, se mai, padri adottivi, non naturali o legittimi!
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6. Riflessioni finali
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Dopo quanto riportato non trova alcuna giustificazione l’affermazione, secondo la quale la patria del nostro grande cane bianco da pecora è l’Abruzzo e quindi “solamente” “abruzzese” debba chiamarsi la sua razza, slogan che si sente ripetere dal sapore di depredazione, di spoliazione e di non rispetto. Allego anche a tal proposito lo scritto di Donna Anna Corsini “Come mandrie a svernar nelle Maremme” pubblicato in un notiziario ufficiale del CPMA (All. 1). Alla luce di tutte le realtà indicate, non esistono nemmeno le ragioni nè tanto meno i presupposti perché si possa parlare di un’altra razza bianca esistente in Abruzzo, cioè dell’”Abruzzese”o ”Mastino Abruzzese” le cui caratteristiche etniche sarebbero del tutto simili a quelle del Pastore Maremmano-Abruzzese, salvo qualche piccola sfumatura di linee e profili, di non facile individuazione. A meno che non si voglia attribuirgli le radici in quei tre mila cani circa presenti agli inizi del secolo XV, di cui si è parlato agli inizi di questa nota, che soltanto la storia ricorda, ma di cui, per lo meno zootecnicamente parlando, si sono perdute le tracce, come d’altronde si sono perdute le tracce dei trecentomila ovini della razza gentile d’Abruzzo, di cui i tremila cani erano al seguito. Non è trascurabile neanche la circostanza per la quale, in questi ultimi anni, tantissimi cani dell’Abruzzo, presentati dai loro padroni, pastori, ai vari raduni di Campotosto, l’Aquila e altri, abbiano avuto il riconoscimento di tipicità per la razza Maremmano-Abruzzese e conseguentemente il relativo certificato per la loro iscrizione al libro italiano riconosciuti L.I.R., rappresentando un importante materiale genetico per gli allevatori della razza. Mi auguro che quanto sopra esposto sia stato sufficientemente esauriente, ed abbia portato un po di chiarezza e luce nella mente di chiunque sia sinceramente alla ricerca della verità e del legittimo. Auguriamoci altresì che gli Organi preposti alla tutela della razza sappiano operare, possano farlo tranquillamente e con oggettività per il perseguimento dei fini statutari, siano sempre cauti nella scelta delle persone cui affidare incarichi di fiducia e di grande responsabilità, sappiano far valere i diritti della razza. Ma auguriamoci soprattutto che l’ENCI, in questa circostanza, unico organo competente a concludere sciocche dispute paesane, sappia sempre, in futuro come nel passato, avvalersi dell’opera di persone altamente qualificate e specializzate in campo scientifico e zootecnico. E’ in ballo, in questo momento, anche il prestigio e l’immagine del nostro cane.
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Franco Simoni
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Laureato in Medicina Veterinaria a pieni voti presso l’Università degli studi di Perugia, diventa Capitano Medico Veterinario del Ruolo Sanitario alla Scuola per Ufficiali Veterinari dell’Esercito di Pinerolo (TO). Successivamente Medico Veterinario civile, Direttore provinciale della Zootecnia della Provincia di Terni E.E.N.A., e titolare della Cattedra di Zootecnia presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “A. Ciuffelli” di Todi e consulente collaboratore presso l’Università di Veterinaria di Perugia, si dedica dal 1950 con l’affisso Enci dei cani da pastore di “Jacopone da Todi”, segretario e vicepresidente del CPMA, alla selezione della razza del cane da Pastore Maremmano-Abruzzese e dei Monti del Caucaso, di cui è autore di numerosi saggi e pubblicazioni su numerosi libri e riviste di cinofilia, collaborando con gli autori Fiorenzo Fiorone e Guidobono Cavalchini nella stesura dei testi “I Pastori Italiani” De Vecchi Editore.
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