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…dai racconti scritti da mio bisnonno Franco sulla Grande Guerra:
“Feci lunghi periodi di trincea a poche decine di metri dal nemico, tra morti, fango, sterco, topi ed ogni altra sporcizia, sotto il lancio di bombe a mano, notte e giorno, con servizi di pattuglia notturna negli intervalli che vi erano tra le due trincee che non superavano i trecento, quattrocento metri. La morte mi sfiorò ogni giorno e più volte al giorno. Quanta fortuna a chi la dovevo? Presi parte a molte azioni, molti combattimenti e mi trovai sempre tra montagne di morti, stuoli di feriti superstiti di reparti semidistrutti. Presi parte alla battaglia di Kuk e di Vodige (maggio 1917), a quella di Bainsizza (agosto 1917) e a quella di Caporetto sul fronte Tolmino (ottobre 1917), sempre nella stessa situazione, mai toccato da un proiettile o da una scheggia, tra gli infuriati bombardamenti. Solo non sfugii a gravi malattie per via di quella sporcizia e di quei pidocchi che mi tormentavano, anche quelli austriaci! Si, perché ve n’erano di due tipi: i nostri bianco gialli, grassi e turgidi, quelli austriaci più piccoli e rossi ed affamati quanto loro e che ci assalivano dopo i combattimenti nei quali occupavamo le loro posizioni…”
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Fin da ragazzino, quando il bisnonno ci veniva a trovare il venerdì, ho ascoltato racconti di guerra, dalla battaglia di Bezzecca del 1866 combattuta da suo padre fino alla seconda guerra mondiale combattuta da suo figlio ….il mio caro Nonno Franco …ci radunavamo attorno alla sua poltrona per ascoltarlo affascinati ed increduli. Imparai a capire come la durezza e le atrocità delle guerre non riguardassero tanto i re, gli imperatori, i politici e i governanti; erano i fanti, gli alpini e i bersaglieri, contrappost ad altri uomini nemici, molto spesso anche giovani ragazzi, a sopportare e a combattere una guerra decisa da altri. Ho avuto l’occasione di approfondire eventi già in parte conosciuti, ma anche di scoprire nuovi argomenti riguardanti il sacrificio degli animali nel primo conflitto mondiale, come ad esempio l’enorme struttura organizzativa che la Regia Veterinaria militare aveva messo in atto per sfruttare al meglio il contributo fornito dalle varie specie animali, dai piccioni agli equini, dai bovini agli ovini, dai suini ad altri animali da lavoro e da affezione come i cani.
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Il Corpo Veterinario dell’Esercito si costituì il 27 giugno 1861 quando, all’indomani dell’Unità d’Italia, vennero riuniti sotto un unico Comando tutti i Veterinari militari dei diversi eserciti preunitari. A quei tempi la trazione era quasi sempre solo animale, tuttavia anche durante la Prima guerra mondiale, quando l’utilizzo dei mezzi meccanici cominciava a diffondersi, l’impiego degli animali rivestì enorme importanza. I compiti principali della Veterinaria Militare erano fondamentalmente l’assistenza alla salute dei quadrupedi, con particolare attenzione alle norme igieniche e di prevenzione nei confronti delle malattie che si potevano propagare tra gli animali e di quelle trasmissibili dagli animali all’uomo (le principali erano la rogna sarcotipa, la morva e il tetano). Inoltre la logistica delle derrate alimentari di origine animale con il relativo controllo sanitario degli alimenti fu già allora un compito importante per i veterinari. Gli interventi chirurgici effettuati su cavalli e muli nel corso della Grande Guerra furono circa 600mila e vennero organizzati posti di medicazione e di pronto soccorso in prossimità dei principali fronti bellici. Furono anche istituiti convalescenziari della Croce Azzurra (l’equivalente della Croce Rossa, destinata però al soccorso degli animali) con un numero di ricoverati che si aggirò intorno ai 260mila quadrupedi feriti. Dal 1915 al 1918 i bovini requisiti ai fini annonari furono due milioni e 700mila, tutti sottoposti, prima della macellazione, a vigilanza sanitaria. L’impiego della Veterinaria militare fu capillare e multiforme; nei momenti di emergenza bellica, qualora necessario, si ricorse anche alla collaborazione dei veterinari “civili”, determinando tuttavia disservizi e conseguenze negative per gli animali “civili”. Fu un’opera dunque vastissima e tecnicamente molto avanzata, che fu modello per il futuro Servizio Veterinario nazionale Tra gli animali che in guerra furono attivamente e fedelmente vicini al soldato un ricordo particolare lo merita il Cane. Il miglior amico dell’uomo fu utilizzato come compagno di combattimento dai Persiani, dai Greci e dai Cimbri e nella Grande Guerra ricoprì una serie infinita di ruoli: si adattarono a fare i “portaordini”, a cercare i superstiti tra i morti, a effettuare esplorazioni notturne e a vigilare costantemente sulle trincee. Trainarono slitte e piccoli carri e in moltissimi casi ebbero il ruolo di animali da compagnia – oggi così diffuso – completando così il loro generoso ruolo fornendo conforto e piccoli momenti di gioia in quel terribile periodo. Animali, dunque, tutti importanti per uno o per l’altro scopo, spesso eroi silenziosi e incolpevoli che hanno affrontato e sopportato pure loro immani sacrifici. Oggi gli animali sono più tutelati di quel che avveniva in passato e la loro protezione e salvaguardia è garantita da leggi appositamente studiate a tal fine. Vi sono però casi nei quali purtroppo ciò non avviene e questo ci disonora come esseri umani. Mi riferisco a certe condizioni di stress e di sofferenza in cui vivono gli animali da reddito, naturalmente non sempre e non dappertutto, come polli, galline, tacchini, conigli, suini, bovini e altre specie ancora, nel vano tentativo di abbattere i costi: ho detto “vano” perché da questi animali “infelici”, tra l’altro, non si ricavano che carni e prodotti altremodo scadenti.
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IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE: CRONOLOIA DEGLI EVENTI
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L’Europa all’inizio del Novecento si presentava divisa in due contrapposti blocchi di alleanze tra i paesi. Da un lato la Trplice Intesa, con Francia, Inghilterra e Russia; dall’altro la Triplice Alleanza, con gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) e Italia. Fuori dal continente, gli Stati Uniti stavano emergendo al ruolo di potenza mondiale. I rapporti tra gli schieramenti europei, intenti a mantenere uno stato di equilibrio nel continente, avevano rischiato di degenerare in più occasioni e di innescare la guerra: i nazionalismi e gli antichi contenziosi, la corsa ai possedimenti coloniali in Africa e soprattutto la decadenza dell’Ipero Ottomano, che portò nei Balcani a un pericoloso vuoto di potere, alimentarono le aspirazioni di egemonia della Serbia, sostenuta in questa sua politica dall’Impero Russo che così si contrapponeva alla politica balcanica dell’Austria-Ungheria. Il 28 giugno 1914 a Sarajevo, nella Bosnia-Erzegovina, l’erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e la sua consorte, vennero assassinati dal panslavista Gavrilo Princip. Dietro l’attentato erano evidenti le trame della Serbia e della Russia. Gli eventi precipitarono in poche settimane: l’Austria-Ungheria, in relazione al tragico attentato di Sarajevo, inviò un ultimatum alla Serbia, i cui contenuti dettavano condizioni pesantissime ed umilianti, prodromo di un conflitto balcanico inevitabile. Il 28 luglio le condizioni dell’ultimatum, rigettate dalla Serbia, determinarono la dichiarazione di guerra e la rispettiva mobilitazione degli eserciti: l’effetto delle alleanze tra gli Stati d’Europa trascinò nel conflitto questi ultimi nel giro di pochi giorni. Il 30 luglio lo Zar di Russia, intervenendo in apoggio alla Serbia, dichiarò la mobilitazione generale contro la Monarchia danubiana, il giorno dopo lo fece l’Austria nei confronti della Russia e il 1° agosto seguirono Francia e Germania. Quest’ultima lo stesso giorno dichiarò guerra alla Russia ed il 3 agosto alla Francia, varcando nella notte i confini del Belgio. L’Inghilterra, vedendo i propri interessi minacciati, entrò in guerra contro la Germania. Gli austro-ungarici cominciarono la guerra combattendo su due fronti distinti: quello balcanico contro l’esercito serbo e quello orientale contro l’esercito l’esercito russo. In entrambi l’impreparazione alla guerra da parte degli austro-ungarici determinò insuccessi militari e la perdita di ingenti truppe. Le perdite (caduti, dispersi, feriti e prigionieri) dopo cinque mesi di guerra erano impressionanti per entrambi gli eserciti: quasi un milione di uomini per gli austro-ungarici, oltre un milione per i russi.
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L’ITALIA IN GUERRA
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La dichiarazione di neutralità espressa dall’Italia allo scoppio del conflitto mondiale rafforzò negli austro-ungarici i sospetti di una sua prossima entrata in guerra contro gli Imperi centrali. Durante i primi mesi del 1915 essi tentarono, anche per via diplomatica, di scongiurare l’entrata della Monarchia sabauda nel conflitto. In Italia infatti la classe dirigente stava intrattenendo colloqui con entrambi gli schieramenti belligeranti, giocando al rialzo per ottenere, in caso di appoggio, le maggiori compensazioni territoriali. La popolazione invece era nella quasi totalità neutrale, con gli interventisti in netta minoranza.
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Il 26 aprile 1915, a Londra, l’Italia concluse le sua trattative per l’entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa. L’accordo prometteva alla Monarchia sabaudia il Tirolo fino al passo del Brennero, Gorizia, Trieste, l’Istria e parti della Dalmazia e altre compensazioni coloniali. Gli accordi che legavano l’Italia a Germania e Austria-Ungheria nella Triplice Alleanza, infatti, la vincolavano a intervenire a loro fianco solo in caso di aggressione degli alleati, ma erano stati questi ultimi ad aprire le ostilità ed il Governo Salandra sfruttò proprio questa condizione. Con la firma del trattato di Londra, l’Italia rimase per una settimana formalmente alleata di entrambi gli schieramenti belligeranti, poi il 3 maggio disdisse il patto della Triplice Alleanza ed il 24 maggio dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Sul nuovo “fronte meridionale”, gli Italiani concentrarono i loro sforzi lungo il fiume Isonzo, ma senza ottenere alcun risultato, nonostante quattro sanguinose battaglie. Lungo il saliente tirolese l’esercito italiano si era solo avvicinato alla linea di resistenza asburgica, senza intaccarla in nessun punto. Con l’arrivo della primavera 1916 la guerra prese piede stabile anche sui ghiacciai alpini (primo fra tutti quello dell’Adamello) e gli austro-ungarici, contenuta l’iniziativa degli italiani, scatenarono il 15 maggio l’ “offensiva di primavera” (nota anche come strafexpedition) progettata da tempo. Il piano prevedeva di scendere dagli altipiani nella pianura veneta e tagliare così ogni via di rifornimento al grosso dell’esercito italiano, impegnato sull’Isonzo, costringendolo alla resa. L’offensiva degli altipiani spostò il fronte per una decina di chilometri nel territorio italiano, ma non centrò il risultato auspicato dagli austro-ungarici. Essa inoltre sguarnì di mezzi il fronte orientale che subì l’offensiva dell’esercito russo e diede infine l’occasione alla Romania di entrare nel conflitto e dichiarare guerra all’Impero asburgico, vedendolo in un momento di grave difficoltà. Sul fronte meridionale l’esercito italiano, costretto ad arretrare sugli altipiani, riprese l’iniziativa sia sull’Isonzo sia lungo il saliente tirolese, ma la sesta, la settima, l’ottava e la nona battaglia dell’Isonzo ebbero come unico risultato di rilievo la conquista di Gorizia, costata un pesantissimo bilancio di perdite umane: ben 300.000 uomini!
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Tra il 1916 ed il 1917 le manifestazioni spontanee e non autorizzate contro la guerra si diffusero in tutto il paese, a riprova ancora una volta che l’intervento dell’Italia fu voluto e pilotato da una ristretta oligarchia. La stanchezza tra i soldati, le ristrettezze economiche, la carenza ed il razionamento di beni alimentari primari, il malcontento per l’andamento della guerra sfociarono nel 1917 in veri e propri scioperi, nonostante fosse in vigore la legislazione di guerra. La terribile 10° battaglia dell’Isonzo, tra maggio e giugno del 1917, e la successiva battaglia dell’Ortigara produssero enormi vuoti nelle file dell’esercito italiano (rispettivamente 160.000 uomini sull’Isonzo e 23.000 sull’Ortigara) e in quello avversario, senza alcun significativo mutamento del fronte. Fu l’11° battaglia dell’Isonzo, tra il 17 ed il 31 agosto, a mettere seriemente in crisi il sistema difensivo dell’esercito austro-ungarico, costringendolo a richiedere l’aiuto dell’alleato germanico per risolvere la propria situazione. Tra il 27 ottobre e il 12 novembre gli eserciti degli Imperi centrali aprirono la 12° battaglia dell’Isonzo, meglio nota come l’offensiva di Caporetto, che costò agli italiani la perdita di più di 300.000 uomini tra morti, feriti e prigionieri e spostò il fronte di guerra sulla linea monte Grappa-Piave. Caporetto fu un crinale per la società italiana, che da una guerra offensiva si trovò a dover affrontarne una difensiva nel proprio territorio. L’esercito austro-ungarico potè, con l’occupazione del Friuli e dell’Alto Veneto, sfamare per qualche settimana le proprie truppe, ma ormai la situazione economica dell’Impero asburgico si era fatta disperata. Proprio per uscire da uno stallo di mesi, nel giugno del 1918 l’esercito austro-ungarico tentò un’ultima offensiva sul Piave, con operazioni secondarie sia sul Tonale che sugli altipiani. L’ insuccesso di questa grande battaglia, che l’industra bellica non era stata più in grado di supportare, determinò il crollo dell’Austria-Ungheria. Anche gli alleati dell’Impero asburgico subirono lo stesso destino. Il Generale Diaz, succeduto a Cadorna all’indomani di Caporetto, preferì prendere tempo di fronte alle insistenti richieste degli alleati, prima di organizzare un’offensiva risolutiva. In autunno però, quando le difficoltà dell’Impero austro-ungarico furono evidenti, divenne improcrastinabile un’azione italiana ed Comandante, spronato anche dal governo Orlando, preparò l’offensiva attraverso il Piave, in direzione Vittorio Veneto, che cominciò il 24 ottobre. Per tutto il mese di ottobre la Germania, nonostante fosse consapevole di aver perso la guerra, si rifiutò di accettare la resa che accolse solo di fronte al collasso del paese. Diversamente l’Impero austro-ungarico aveva più volte cercato, nonostante le proteste tedesche, di avvicinare gli esponenti delle Potenze dell’Intesa per arrivare alla pace.
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Il mattino del 29 ottobre in Vallagarina il Capitano dello Stato Maggiore asburgico Camillo Ruggera, incaricato dal generale Von Weber, si diresse con bandiera bianca verso le linee italiane, per intraprendere i contatti e per intavolare le trattative di armistizio. La notte successiva, con l’esercito asburgico in piena disgregazione, gli italiani gettarono i ponti sul Piave. Il giorno dopo l’esercito sabaudo scese dal Grappa e raggiunse Feltre e Vittorio Veneto. Il 31 ottobre il Comando supremo dell’esercito italiano dava ordine di avanzare repentinamente, constatando il ritiro su tutto il fronte da parte dell’avversario. Soltanto quel giorno la commissione asburgica per l’armistizio fu portata al luogo delle trattative, ovvero Villa Giusti presso Padova. Il 1° novembre il Comando Supremo italiano ad Abano ricevette da Parigi le prime condizioni di armistizio e inviò alcuni rappresentanti a Villa Giusti, tra cui il Generale Pietro Badoglio, capo della Commissione italiana per l’armistizio e un interprete, Giovanbattista Trener cognato di Cesare Battisti.
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Nonostante le pressioni dei rappresentanti austriaci, i membri della Commissione italiana si opposero alla richiesta di cessare le ostilità prima della firma dell’armistizio. L’armistizio si firmò alle 15 del 3 novembre, mentre le truppe italiane stavano raggiungendo Trento e Trieste, ma le ostilità cessarono alle 15 del giorno seguente. Il 4 novembre Diaz emanò il “Bollettino della Vittoria”. Nel Tirolo l’esercito italiano aveva raggiunto la linea Sluderno, Spondinga, Malè, Cles, Mendola, Salorno, Monte Panarotta, Valsugana, Corno di Tesino, Fiera di Primiero. Nei giorni successivi gli italiani raggiunsero la campagna di Dobbiaco e l’ 11 novembre furono al Brennero. In quella corsa all’acquisizione di territori gli italiani fecero migliaia di prigionieri i quali, nella convinzione dell’armistizio, ripiegavano dalle posizioni presidiate per tre lunghi anni. Il numero di prigionieri di guerra detenuti passò infatti da circa 180.000 del 24 ottobre 1918 ad oltre 470.000. Si concludeva così la Prima guerra mondiale, che per l’Italia costò 650.000 caduti, il 10% degli uomini arruolati. L’anno seguente si stilarono i trattati di pace, tra cui, il 10 settembre quello di Saint-Germain sui rapporti tra Italia e Austria, che determinava i nuovi confini tra i due Stati.
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ANIMALI SOLDATO
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Il Primo conflitto mondiale fu una guerra diversa da tutte quelle combattute fino ad allora, sotto molti aspetti. Più dei precedenti conflitti, segnò infatti un discrimine nella cosiddetta “arte della guerra” e nella conduzione delle operazioni militari, ma fu anche punto d’incontro tra il mondo tecnologico emergente e quello rurale. Fecero la loro apparizione armi sempre più micidiali (gas tossici, lanciafiamme), aerei e carri armati, in un contesto che vide i mezzi a motore solcare le stesse strade che erano state percorse fino ad allora dai carri trainati da animali. Un corpo quale la cavalleria, che con le sue poderose cariche aveva distinto le guerre di gran parte dell’Ottocento, fece la sua definitiva scomparsa: utilizzata ancora nel 1914 soltanto a scopi di ricognizione osservativa, fu praticamente appiedata e i suoi reggimenti comparati a quelli di fanteria. Gli animali, tuttavia, ebbero un ruolo sempre più fondamentale mano a mano che i mesi di guerra passavano: furono infatti incorporati nel cosiddetto “treno”, ovvero l’apparato militare che muoveva tutte le operazioni logistiche degli eserciti: cucine da campo, trasporto di viveri, feriti, munizioni, armamenti, ecc.
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Il solo esercito italiano, che alla sua entrata in guerra nel 1915 aveva arruolato 806 quadrupedi per il traino di 400 carri, già l’anno successivo disponeva di oltre novemila animali che tiravano circa 2.600 carri e nell’ultimo anno di guerra gli animali da tiro impiegati furono circa 18.000 per quasi 6.000 carri. La Grande Guerra fu dunque un crinale anche per gli animali che vennero “militarizzati” in massa. Essi seguirono infatti il destino di milioni di uomini: furono arruolati e addestrati, ricevettero compiti precisi, un rancio, alloggiamenti e furono curati se feriti. Anche l’impiego al fronte di Veterinari per curare e salvare quando possibile gli animali, divenne fondamentale, considerato che ogni aumento di quadrupedi richiesto dall’esercito gravava sulle già critiche condizioni dell’economia interna dei diversi Paesi. L’esercito austro-ungarico per anni aveva messo a disposizione dell’economia agricola il proprio “parco animali”, ma la guerra causò una tale emorragia di questi ultimi da richiedere la requisizione di quadrupedi alla popolazione. In precedenza, infatti, gli animali da soma di proprietà dell’esercito venivano affidati piuttosto spesso ai privati, su richiesta: questi ultimi dovevano essere disponibili a restituire gli animali entro 24 ore in caso di mobilitazione e dovevano tenerli in buono stato di salute; dopo sei anni di mantenimento l’animale diventava diventava di loro proprietà. Con lo scoppio della guerra, poi, i proprietari degli animali da tiro dovettero mettere a disposizione le propre bestie, che già negli anni immediatamente precedenti il conflitto erano state censite e denunciate alle autorità militari attraverso il capo comune; nel 1905 gli indennizzi stabiliti dalla legislatura erano di 28 centesimi per cavallo o mulo, 25 per bue, 17 per vacca o per asino. In sostanza l’uomo non potè fare a meno degli animali: oltre a quelli da tiro, i piccioni viaggiatori collegarono e portarono ordini ed informazioni ai soldati, mentre i cani si occuparono non solo del trasporto, ma anche dell’invio di dispacci, della ricerca ed individuazione dei feriti sul campo, della segnalazione di eventuali situazioni di pericolo.
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Cani e anche gatti svolsero poi il prezioso ruolo terapeutico di animali da compagnia, in grado di riportare all’umanità soldati che vivevano quotidianamente la follia del conflitto e le sue tragedie.<br>Per tutti questi motivi risulta praticamente indeterminabile l’esatto numero degli animali che durante la guerra furono impiegati al fronte. Si stimano in circa 16 milioni gli animali “mobilitati”, fra cui 11 milioni di equini, 100.000 cani, 200.000 piccioni viaggiatori. Si calcola che non meno di otto milioni di cavalli, muli e asini morirono nel corso della Grande Guerra. Ma di tutti loro la storiografia ufficiale si è occupata poco. A parte alcuni pregevoli lavori, di essi, dei loro sforzi, delle loro sofferenze, di tutto questo si conserva poca traccia. Fanno eccezione le ordinanze e la storia individuale dei singoli soldati, ovvero lettere, corrispondenza, diari. Emblematica, in tal senso, la testimonianza riportata da Attilio Frescura, tenente dell’esercito italiano e scrittore, nel suo “Diario di un imboscato”, una delle poche opere della guerra priva di retorica: “ Sono venuti qui tre autocarri di feriti. Una granata, nel tragitto, ha ferito il cagnolino del conducente salvando il ventre del suo padrone, sulle cui ginocchia era accovacciato. Gli autisti tengono sempre un cagnolino per mascotte…il cane, dolorante, ora è accovacciato sulle gambe di un ferito austriaco. E sembra che non se ne dolga. Perché non hanno odi di razza i cani …” FRESCURA A., Diario di un imboscato, Mursia, Milano, 1981, p. 67.
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CANI IN GUERRA
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Il miglior amico dell’uomo condivise, allo scoppio del conflitto, le sorti di milioni di padroni. Nell’esercito italiano, dove i cani furono impiegati fin dalla guerra di Libia del 1912, va ricordata in particolare la figura del Capitano Carlo Mazzoli (1879), nel corso della guerra diventato Maggiore sul Carso e Tenente Colonnello sull’Adamello. Mazzoli, detto anche il “Tenente cagnaro”, fu tra i più importanti addestratori di cani dell’Esercito italiano. Egli insegnava ai cani a tirare le slitte, conducendo l’addestramento direttamente al fronte, anche con cani trovati abbandonati presso gli alpeggi coinvolti dalle varie operazioni militari. L’esercito tedesco era particolarmente all’avanguardia nell’utilizzo di cani; ne impiegò almeno 35.000 esemplari, prevalentemente doberman e pastori tedeschi. Nell’Impero austro-ungarico fin da 1914 si dispose la “leva canina” e i proprietari di cani dovettero portare i loro animali a una visita nella quale veterinari dell’esercito stabilivano se il cane fosse idoneo o meno ai servizi per l’esercito. Gli animali che potevano essere potenzialmente utilizzati venivano esentati dalla tassa sui cani, che era in vigore nell’Impero. I cani (kriegshunde) dopo l’addestramento potevano essere impiegati per servizi di trasporto, oppure per la ricerca di feriti sui vari campi di battaglia. Nell’Esercito italiano i cani maggiormente utilizzati per questo utilizzo furono i Maremmani Abruzzesi che trainavano generalmente slitte oppure carrette a due ruote, ma anche di maggiori dimensioni, per il trasporto di feriti e altro. Il traino poteva essere effettuato da una o più coppie di cani oppure da tre cani per le piccole carrette. I trasporti potevano consistere in materiali da costruzione, legna da ardere ma anche in armi come mitragliatrici o cannoncini di piccolo calibro (37 mm). Un compito più impegnativo spettava ai cani della sanità. Al termine delle cruente battaglie, nella terra di nessuno spesso giacevano numerosi feriti che certo non riuscivano a rientrare nelle proprie linee o ad essere recuperati dai già impegnatissimi reparti di sanità. I cani quindi uscivano dalle trincee portando una pettorina con il simbolo della Croce rossa e andavano in ricognizione tra i crateri delle granate e i reticolati divelti alla ricerca dei feriti. In caso di ritrovamento il cane rientrava nelle linee con un oggetto del ferito e veniva attivata di conseguenza la pattuglia di recupero. Dato il lungo impegno che comportava il loro addestramento, si raccomandava ai reparti di truppa la massima cura ed attenzione per gli animali loro assegnati. In caso di malattie infettive si provvedeva celermente a isolare i reparti per impedire il diffondersi del contagio. A Giustino, sul fronte dell’Adamello, nel maggio del 1916 fu riscontrata la rabbia in un cane dell’esercito. Si misero subito in atto le misure di prevenzione e di contenimento, obbligando i proprietari di cani a tenerli alla catena e al guinzaglio con la museruola. I cani trovati a girovagare liberi sarebbero stati abbattuti. E’ significativo far notare che in quel periodo venne fatta un’anagrafe dei cani: in tutto il paese, che contava 430 abitanti, vi erano solo quattro cani di piccola taglia ed un San Bernardo, tutti gli altri erano stati requisiti dall’esercito. Altre mansioni per i cani in guerra erano la segnalazione di eventuali assalti nemici e la pulizia delle trincee infestate dai topi. Generalmente per tali fini si usavano cani di piccola taglia, non impiegati per il traino o la sanità. I cani di piccola taglia si prestavano particolarmente ad abbaiare alla comparsa dei primi rumori sospetti, allertando così le vedette (e non solo quelle) che qualcosa si muoveva in prossimità dei reticolati.
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Ultima mansione che il fedele amico dell’uomo svolse durante la guerra fu quella di animale da affezione. Generalmente un ufficiale aveva un proprio cane, così come un plotone o una compagnia di soldati adottava un animale come propria mascotte. Il suo era un ruolo importante: riportare il soldato alla pace con se stesso, a una “normalità” là dove nulla vi era di ordinario. Soldati profondamente scossi dagli orrori della guerra ritornavano all’umanità grazie alla compagnia dei loro animali, che li seguivano anche negli avamposti… Al termine della guerra, dopo aver patito innumerevoli pene e subito la follia umana di quel terribile conflitto, migliaia di cani da guerra furono abbandonati al loro destino. Ci fu qualche animale fortunato che riuscì a ricongiungersi al proprio padrone, altri ne trovarono uno nuovo, ma per molti vi fu l’abbattimento o una vita da randagi; un ultimo terribile castigo che l’irriconoscente uomo inflisse al suo sempre fedele, migliore amico!
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I MAREMMANI ABRUZZESI NEL FRONTE DELL’ADAMELLO
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Il nostro cane da pastore fu moltissimo utilizzato nel primo conflitto mondiale, come descritto, per le sue innumerevoli doti di forza, rusticità e versatilità. Sin dall’apertura delle ostilità l’Esercito italiano collocò un piccolo presidio in quota sull’Adamello, non lontano dal Passo del Tonale che oggi divide la Lombardia dal Trentino, presso il rifugio Garibaldi, a protezione dei passi Brizio e del Venerocolo. Proprio in tale distaccamento le nostre ricerche si sono concentrate riscontrando numeroso materiale fotografico e documentale sul duro lavoro dei Maremmani Abruzzesi… Questo rifugio, nel luglio 1915, fu oggetto di un tentato attacco austriaco, sventato dai soldati italiani. L’assalto fu conseguenza del tentativo, effettuato il 9 giugno precedente, degli alpini del battaglione Morbegno, di forzare le difese avversarie nella conca del ghiacciaio del Presena. Con il proseguire del conflitto e l’incremento della presenza di forze armate sul massiccio dell’Adamello, la conca del rifugio Garibaldi da piccolo presidio divenne il centro logistico di tutto il settore, con una capacità di ricovero di più di mille uomini, infermerie riscaldate, bagni, scuderie e magazzini. Al rifugio salivano dal fondovalle uomini, viveri e rifornimenti di ogni genere; le scorte presenti erano in grado di coprire il fabbisogno del settore per due settimane. Dal centro logistico si doveva garantire il rifornimento delle linee avanzate e degli avanposti dislocati sul ghiacciaio. Proprio per questo servizio, date le temperature invernali estremamente rigide e proibitive per la sopravvivenza di muli e cavalli, si fece ricorso al trasporto su slitte trainate da cani, a maggioranza Maremmani Abruzzesi che per le loro innate doti sopra descritte, furono sperimentati ed impiegati sull’Adamello a partire dall’estate del 1916. Tra gli addestratori di cani per il trasporto d’alta quota dell’esercito italiano, si ricorda la figura carismatica del Capitano Carlo Mazzoli (Cesena, 1879 – Bengasi, 1928), che ricorse all’utilizzo del migliore amico dell’uomo sul fronte della Val Dogne, in Carnia, constatando come il trasporto con i cani fosse meno visibile al nemico delle salmerie tradizionali. Egli addestrò per primo una muta di cani per il traino di slitte con viveri e munizioni, poi questa sua idea fu raccolta dallo Stato Maggiore dell’Esercito che istituì un reclutamento di cani da slitta, che venivano addestrati e quindi assegnati ai vari reparti alpini “cagnari”. Mazzoli fu anche sul fronte alpino nel gruppo dell’Ortles-Cevedale e del Passo del Tonale dove arrivò nel 1917, quindi l’anno successivo fu promosso da Capitano al grado di Tenente Colonnello e divenne Comandante del Battaglione alpini Val d’Orco. Qui, sui monti fra lo Stelvio e il Tonale, portò le esperienze acquisite durante gli anni precedenti con i cani e le slitte. Carlo Mazzoli era l’opposto del tradizionale ufficiale dell’esercito: capelli lunghi e barba trasandata sono gli elementi distintivi che balzano agli occhi nell’immagine principale che si è conservata di lui e che lo ritrae immancabilmente in compagnia dei suoi cani. Tutto ciò non faceva che aumentare il suo carisma: sembra che pure Vittorio Emanuele III abbia voluto conoscerlo e che egli si sia presentato al re in compagnia dei suoi amati quattro zampe.
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Sull’Adamello nell’estate 1918 si contavano 220 cani: “ Erano di razza da pastore Maremmano Abruzzese, requisiti negli Appenini ed addestrati nel canile militare di Bologna. Mantello di massima bianco, pelo liscio o ricciuto, alti, forti, intelligentissimi, dimostrarono subito uno spiccato adattamento ed una eccezionale resistenza ai rigori del clima. Con la nota simpatia per i soldati si affezionavano al loro conducente (chiamato cagnaro) ognuno dei quali aveva in consegna tre cani. Con attacchi semplici, a tre a tre, trainavano le slitte con un carico utile da 130 a 150 chilogrammi. Erano quasi tutti dislocati al “Passo Garibaldi” in una grande baracca costruita ad uso canile con doppie pareti e sollevata di circa un metro sul piano della neve. Avevano una razione quasi identica al soldato e quindicinalmente il Capitano consegnatario della sussistenza faceva loro omaggio dei rifiuti di macelleria.
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Iniziavano il servizio all’alba e di massima compivano due viaggi giornalieri dal “Passo Garibaldi” ai centri di “Passo Lobbia”, “Passo Fargorida” e teleferica del “Cavento” (dopo il 1917). Complessivamente trasportavano da 150 a 200 quintali di carico al giorno. Il servizio dei cani costituiva uno spettacolo caratteristico. Le slitte appena cariche partivano. I cani alla voce del conducente scendevano di corsa lungo la pista segnata sulla vedretta con festoso guaito che sembrava un saluto alla bianca luce del giorno nascente. Nei tratti piani moderavano l’andatura ad un leggero trotto, in salita procedevano al passo tendendosi in avanti con la testa bassa in uno sforzo continuo. A volte sostavano, e per riprendere il cammino insieme s’impennavano abbaiando quasi per accordarsi nello sforzo necessario a riprendere il posto, o volgevano al soldato uno sguardo, eloquente richiesta di aiuto. Se vedevano un loro simile inoperoso era un abbaiare feroce. Gli alpini dicevano che abbaiavano contro gli imboscati. Nell’inverno durante la tormenta erano meravigliosi. Il gelo ricopriva tutta la loro testa, il collo, le zampe di ghiaccioli, il nevischio sferzava i loro occhi ed essi con le code basse soffiando le nari, procedevano fedelmente innanzi attraverso il paesaggio polare. ” (VIAZZI L., La guerra bianca sull’Adamello, II edizione riveduta ed ampliata, Casa editrice G.B. Monauni – Trento, 1968, pp. 272-274). Il Reparto dei cani da trasporto del regio Esercito Italiano fu sciolto il 3 novembre 1918 e, a quanto sembra, i cani dell’Adamello, nella concitazione di quegli ultimi giorni di guerra, rimasero dimenticati lassù, sui ghiacci. Ma qualcuno di essi riuscì a evadere dai ricoveri e fu visto vagare a fondo valle, inselvatichito, tradito dall’uomo e deluso dalla sua irriconoscenza.
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Jacopo Simoni
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